Ormai l’Aceto Balsamico di Modena è un prodotto molto conosciuto e apprezzato anche al di fuori dei confini della provincia di nascita. In tanti conoscono la differenza tra Aceto Balsamico Tradizionale di Modena DOP e Aceto Balsamico di Modena IGP oltre ad avere qualche nozione su quanti anni ci vogliono per fare l’Aceto Balsamico tradizionale di Modena. Si sente spesso parlare anche dei benefici dell’Aceto Balsamico e di tutti gli abbinamenti possibili tra l’Aceto Balsamico e i più disparati cibi.
Eppure, l’Aceto Balsamico di Modena è un alimento con una lunga storia e pieno di segreti. Il fatto stesso che sia un prodotto così fortemente legato a clima, territorio e tradizioni famigliari locali lo rende unico nel suo genere e quindi fonte di innumerevoli curiosità.
Oggi te ne raccontiamo qualcuna per farti entrare ancora più a fondo nel mondo del Balsamico.
Forse non eri a conoscenza del fatto che l’esperto di aceto balsamico ha un nome, proprio come l’esperto di vino. Il tecnico che segue pazientemente tutte le lente fasi di produzione dell’Aceto Balsamico è l’oxologo, dal greco oxos, che significa appunto aceto. Il più famoso? Angelo Valentini, agronomo, enologo, erborista e oxologo che tuttora viene chiamato per allestire le acetaie e che ha scritto anche libri sul tema.
Il metodo più tradizionale per assaggiare il balsamico è versarne alcune gocce sul dorso della mano, tra il pollice e l’indice in modo che il calore della pelle ne esalti il gusto. Oggi però gli assaggiatori utilizzano un cucchiaino apposito in porcellana, materiale che permette di apprezzarne al meglio le caratteristiche gustative e olfattive. L’importante è ricordare che il balsamico non si assaggia mai sul metallo perché questo fa reagire la vitamina C con l’ossigeno, conferendo al prodotto note ferrose che ne alterano le proprietà originali.
Al palato si valutano sensazioni quali la pienezza, l’intensità, l’armonia, l’acidità e i gusti di tempi andati e dei legni in cui invecchia. Non dimenticare però che la degustazione non è solo gustativa ma anche visiva e olfattiva: prima di assaggiarlo lo si versa in un calice di vetro e lo si fa ruotare per vedere come l’aceto aderisce alle pareti, guardandolo poi in controluce al lume di una candela: ne potrai apprezzare colore, densità e limpidezza. All’olfatto, invece, si possono apprezzare l’acidità, la finezza, la persistenza e l’intensità degli aromi dell’aceto.
Se hai visitato un’acetaia tradizionale o hai visto qualche fotografia di un’antica acetaia avrai notato che in alcune è presente una pietra su ogni botte di legno. Un tempo si usava infatti chiudere le botti con una pietra – per tradizione presa dai fiumi Panaro o Secchia – con la convinzione che senza questo accorgimento l’aceto non sarebbe stato altrettanto buono. La ragione di questa tradizione è molto semplice: la forma irregolare del sasso di fiume lascia passare un po’ d’aria che permette all’aceto di respirare quindi di ossigenarsi per fermentare e risentire le escursioni termiche. Negli anni gli effluvi acidi dell’aceto riescono persino a corrodere il sasso. La garza posta sul foro della botte serve invece a proteggerlo dall’ingresso d’impurità. Oggi non sempre si segue questa tradizione ma in ogni batteria la chiusura delle botti cerca di mantenere le giuste condizioni di conservazione dell’aceto permettendo il passaggio d’aria.
Tradizionalmente le serie di botti (o batterie) in cui il balsamico era lasciato a maturare erano collocate nei sottotetti delle case, dove l’escursione termica arriva anche a 50. La batteria ha generalmente un numero dispari di botti in ordine decrescente dalla più grande alla più piccola. Dalla botte più grande ogni anno una quantità di aceto balsamico è travasata nella botte seguente più piccola, procedendo così per tutta la serie di botti. L’intero processo può durare per più generazioni ottenendo con grande pazienza balsamici con oltre un secolo di invecchiamento.
Non a caso, una volta c’era la tradizione di far costruire ed avviare una nuova batteria alla nascita di una figlia femmina che, una volta adulta, la portava in dote. Il balsamico veniva infatti considerato un ricco patrimonio di famiglia. Ecco spiegato perché molte batterie avevano un nome di donna. La simbologia del femminile è legata al mondo del Balsamico in molti modi. Si pensi che la pellicola di acetobatteri che si forma sulla superficie nelle botti è chiamata “Madre dell’Aceto” e viene usata come innesto in una nuova botte. C’è poi la Botte Madre o “Badessa”, una grande botte che alimenta altre batterie.
Se volessimo designare i capostipiti dell’Aceto Balsamico sarebbe abbastanza arduo in quanto le prime testimonianze della cottura del mosto risalgono all’antica Roma, nei testi di Virgilio. Fu però il medico Antonio Vallisnièri a renderlo oggetto di studio ne descriverne le caratteristiche, annotando nel XVIII secolo annotò che già nel 1288, quando Obizzo II d’Este fu investito della Signoria di Modena, alla corte vi erano delle botti di aceto.
La ricetta alla base del disciplinare di produzione è del 1862 e fu descritta dall’agronomo ed enologo Francesco Aggazzotti. Forse si può dire che sia proprio lui il padre del Balsamico, perché ne parlò in una lettera all'avvocato Pio Fabriani e successivamente pubblicò lo scritto, mostrando la volontà di far conoscere il prodotto a livello nazionale. Altra figura importante fu il chimico Fausto Sestini, che nel 1863 fece il primo studio scientifico sul prodotto, determinandone la composizione chimica e le sue peculiari caratteristiche.
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